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Palermo e il bicchiere pieno

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Palermo e il bicchiere pieno

Il pessimismo avanza, e noi organizziamo la resistenza, a colpi di umanità, diversità, bellezza, e ricchezza non solo materiale: questa la filosofia di #VediamoPositivo, un hashtag, un’idea, un’iniziativa di Generali che mi ha portato in Sicilia, a Palermo, per cercare di vedere positivo.

E non è stato difficile.
Piuttosto, la vera difficoltà, per uno che viene dai paesini essenziali dell’Umbria, sta nel raccontare la straordinaria complessità di Palermo.
Prendi, ad esempio, i Quattro Canti: le due vie principali del centro di Palermo, la Maqueda e il Cassaro, si incrociano in un punto pittoresco, un incrocio trafficatissimo, che però è anche un’opera d’arte, una piazza a forma di ottagono, che infatti è detta Ottangolo, e all’Ottangolo ci sono i Quattro Canti, quattro bellissime facciate con monumenti celebrativi pieni di significati. A questo punto mi chiederete cosa celebrano.
Ecco, i Quattro Canti celebrano tutto, ma proprio tutto. Quattro stagioni, quattro elementi, quattro santi, quattro re, quattro palazzi, quattro quartieri, quattro famiglie nobili, quattro punti cardinali. Nei Quattro Canti ci hanno messo tutto quello che ci poteva entrare.
E questa ricchezza, questa abbondanza di contenuti, è il motivo ricorrente di tutta Palermo.

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Prendi la vegetazione: una miscellanea rigogliosa di Italia, di Grecia, di Africa e di Spagna. I parchi di Palermo non sono parchi come li intendiamo noi: sono giardini dell’Eden. Non ci sono mica i soliti alberelli potati e le siepi quadrate o tonde: a Palermo, a qualunque angolo di strada, trovi magnolie contorte e secolari, palme che sembra di stare ai Caraibi, ficus giganti, e fichi d’india ovunque. Persino l’erba non è la solita erba, hanno quadrifogli diversi.

Il fatto è che a Palermo ogni cosa contiene tutta la complessità e le contaminazioni secolari della Sicilia, e quindi in ogni molecola palermitana c'è una varietà immensa di cose, storie, personaggi, vicende, tradizioni.

Palermo è sovraccarica, ed è felice di esserlo.

È così anche per il cibo. Ho avuto la fortuna di assistere all’Arancina Day, ovvero Santa Lucia: per tradizione, il 13 dicembre a Palermo non si mangia pane, ma solo arancine. Tutta la città si alza al mattino e corre ad abbuffarsi di arancine.

E l’arancina non è mica solo una palla di riso fritta: se così fosse, sarei riuscito a mangiarne molte, ma non ce l’ho fatta. Ne ho mangiate due nel pomeriggio, e poi non ho avuto fame fino al mattino dopo, nonostante tanti chilometri fatti a piedi, perché nelle arancine c’è tutto: la nobiltà sveva, l'impetuosità normanna, la potenza romana, l'arroganza gotica, la serietà bizantina, la maestria greca e l'intensità spagnola. E sì, anche la besciamella e il burro.
La cucina siciliana è tosta, potente, non saprei come definirla: cultura candita. Pienezza mediterranea. Zuppa di secoli ben speziata.

Palermo non si risparmia, mette tutta se stessa in ogni aspetto. Prendi la torta Sette Veli: una specialità con sette strati al cioccolato. Sette!
La pasticceria siciliana è ricchissima, quasi stucchevole per chi non ci è abituato, eppure non vorrei che fosse diversa. Se dovessi dare un sapore al barocco, direi che sa di ricotta, di mandorle amare e di frutta candita.
E quella stessa ricchezza, quella stessa incapacità di risparmiarsi, sta nei cannoli e nella cassata: buoni che stupiscono, potenti, un trionfo vero. Vorresti farne bocconi più piccoli, ma non riesci, non puoi. Non esiste una Palermo a bocconcini, a piccole dosi.

L’architettura di Palermo, poi, è una roba che mette alla prova gli esperti: c’è tutto di tutti, giri per la città e vedi cupole barocche spuntare da ogni dove, e ognuna sembra una cattedrale. Alcune le riconosci, assomigliano a quelle del tuo paese; altre sono più gotiche; altre ancora sembrano moschee, e invece sono chiese.
E ancora, palazzi costruiti in un certo secolo con un certo stile, ristrutturati in un altro secolo con un altro stile, e modificati in un altro secolo ancora, con un altro stile ancora. A Palermo stupiscono perfino le Poste Centrali, con quelle gigantesche colonne in stile fascista, maestose ed esagerate per le Poste. O forse no.

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A Palermo niente è eccessivo, perché lo è tutto. Ma nel senso buono.
Buono perché verace, diretto, incapace di mediazione, come il mercato di Ballarò, che è vita allo stato puro: non puoi girare per il mercato e non comprare qualcosa, sono troppo bravi a vendertela, troppo sinceri.
I mercanti di Palermo usano una tecnica che ho definito di saturazione sensoriale: urlano slogan in siciliano e li ripetono all’infinito. Niente sottigliezze, niente strategie: urla e ripetizione, e basta. Insistono all’inverosimile, ma senza mentire. Sarde un chilo un euro, un chilo un euro, un chilo un euro. Pigghiàtele, pigghiàtele, pigghiàtele. E tu le prendi.
I supermercati in centro non hanno speranza: al mercato c’è tutto, tutto il pesce del Mediterraneo, tanto cibo street per tutti i gusti, e le olive succulente, i limoni grossi, le spezie, tutte le merci possibili e tutte le genti possibili. Al mercato la gente chiacchiera, urla, fischia e canta, ognuno scende in strada e sta a proprio agio, si lasciano andare. Non starebbero così bene nemmeno sulla poltrona di casa: la Palermo sbottonata.
Il mercato di Ballarò sa di porto e di secoli, di sole e di viaggi, di mondo vero, di mondo pieno. È una torta a sette veli di umanità.

Palermo, questo posto assurdo che ha troppo da dire e nessuno che sta a sentire, che è creativa e disordinata, affascinante e caotica, ti fa sentire giovane, inesperto, smarrito in un posto che non sai definire, che non sai giudicare, e forse non puoi.
A Palermo il bicchiere non è mezzo pieno, o mezzo vuoto: è pieno.
Perché o è pieno, o non è.

Palermo e il bicchiere pieno