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Quando il teatro funziona In evidenza

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Drammaturgo e regista: intervista a Liv Ferracchiati

Testo: Isabella Zaffarami - Brano: “Via della povertà” - Fabrizio De André


“Il teatro funziona se agisce sul pubblico, se riesce a dar vita a quella che io chiamo una dialettica energetica tra attori e spettatori; a teatro deve avvenire un incontro fra esseri umani, deve verificarsi un evento: quando questo succede ti può davvero cambiare la vita”


Un lungo, approfondito, complesso e molto intenso lavoro di scrittura che regala in modo immediato, accessibile, emozionale e convincente una particolare lettura della realtà. È questo uno degli elementi che caratterizza la produzione di Liv Ferracchiati e che gli viene riconosciuto anche nelle motivazioni che hanno accompagnato la menzione speciale ricevuta nell’ambito della Biennale di Venezia 2020 con “La tragedia è finita, Platonov” - riscrittura del classico di Cechov prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria - di cui l’artista umbro è autore e regista e in cui è presente anche sul palco come Lettore, con l’obiettivo di portare se stesso e i suoi pensieri autobiografici a servizio dell’opera.

A Liv Ferracchiati - si legge nella menzione - per aver reso attuale il repertorio nel modo più intelligente possibile: non solo rendendolo attuale, ma avviando anche una riflessione che parte dal qui e ora, gettando una nuova luce su ciò che dobbiamo fare per vivere una vita significativa, come dobbiamo relazionarci con il mondo, come dobbiamo agire, tutte questioni che oggi sono urgenti. Grazie Liv”.


Liv, quando e come nasce la passione per il teatro?

Nasce in modo del tutto spontaneo come passione per la scrittura, ma che ben presto mi sono reso conto fosse una scrittura che doveva avere un seguito sulla scena, che andava rappresentata e quindi che era un tipo di scrittura drammaturgica. A dodici anni ho scritto una sceneggiatura che volevo fosse recitata dai miei compagni di classe, era tutto un gioco, ma il gioco è un elemento fondamentale del teatro, come ho scoperto più tardi.


Quando lo hai scoperto in particolare?

Prendendo parte al laboratorio teatrale del mio liceo – lo Jacopone di Todi – diretto da Francesco Torchia e Silvia Bevilacqua, ho iniziato ad apprendere il mestiere comprendendo che il teatro è gioco, ma anche rigore, un gioco in cui le regole sono fondamentali.



Quali sono le complessità maggiori che hai incontrato nel tuo percorso formativo e poi professionale?

Una fase particolarmente complicata è stata quella successiva all’università: ho frequentato a lungo laboratori e accademie, ma senza riuscire a trovare qualcosa che facesse davvero per me. Trovavo le accademie di approccio omologante. Sono stato un po’ un dissidente quindi: ho fondato una mia compagnia e ho iniziato a lavorare, ma quasi da autodidatta. Eravamo tutti poco formati e quindi anche completamente liberi e questo è stato per molti aspetti fondamentale per la nostra crescita professionale, anche semplicemente dal punto di vista tecnico e organizzativo: fare i conti con i tempi, con le strumentazioni, con luci, costumi e scenografie è stato importante. Poi ho conosciuto l’Accademia Paolo Grassi di Milano con il suo approccio variegato, libero, plurale, anche dal punto di vista delle discipline trattate: alla Paolo Grassi ho preso un diploma in Regia teatrale. Più in generale le complessità in questo settore sono molte, dalle difficoltà nel trovare progetti forti su cui lavorare al trovare le risorse economiche. Quello che conta però è avere una motivazione forte che ti spinge a scegliere un dato progetto.


Per te quali sono le motivazioni alla base della scelta di un progetto e, più in generale, cosa ti spinge a fare teatro?

Fare teatro mi permette di indagare la realtà, approfondire e capire, conoscere meglio l’essere umano. Ogni progetto che si porta avanti in questo settore necessita di tantissimo studio, spesso di anni di ricerca e approfondimento, è quindi un lavoro lungo e impegnativo, ma che consente anche di andare a fondo nell’esplorazione di un argomento. Per quanto mi riguarda ho avuto anche la fortuna di sentire sempre in modo forte la necessità di portare un determinato tema sul palco. È stato così per tutte le mie opere. E poi c’è la bellezza del processo creativo che si sviluppa a partire dalla scrittura fino alla regia e al lavoro con gli attori, che per me è come una sorta di riscrittura. 





L’artista umbro ha ricevuto una menzione speciale della Biennale di Venezia con il suo spettacolo “La tragedia è finita, Platonov”
prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria