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Gianfranco Gianangeli In evidenza

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una vita nella moda da Perugia a Parigi
Testo: Matteo Grandi Brano: “Santé” - Stromae

Alla vigila di un nuovo prestigioso incarico, dopo quasi tre anni da ceo di Maison Margiela, l’imprenditore perugino racconta la sua “doppia vita” diviso fra la carriera nelle grandi case di moda e un piede nell’azienda di famiglia

Una vita nella moda. Anzi all’apice di alcune fra le più celebri maison di moda del mondo. Il tutto partendo da Perugia: da una passione e da una competenza che si sono formate nell’azienda di famiglia. Lui è Gianfranco Gianangeli. Lo abbiamo incontrato in occasione di un suo fugace passaggio in Umbria alla vigilia di una nuova avventura professionale, ancora top secret, che arriva dopo anni ai vertici del brand Maison Margiela, in veste di ceo.

Gianfranco, proviamo a riavvolgere per un attimo il nastro della tua carriera, che si intreccia anche con il tuo ruolo di imprenditore all’interno dell’azienda di famiglia, lo storico marchio “Gianangeli” con sede a Ponte Valleceppi...

Dopo una lunga carriera prima in Bottega Veneta poi in Prada, arrivo in Givenchy come direttore del retail, che è praticamente il direttore di tutta la distribuzione diretta del marchio: la persona che si occupa della gestione dei negozi, per intenderci. Un ruolo di responsabilità: ero fondamentalmente a capo di mezza azienda. Là sono rimasto dal 2013 al 2016; sono stati quattro anni, in cui abbiamo fatto un bel lavoro di espansione del marchio aprendo una novantina di negozi. Una bella evoluzione.





Poi cosa succede?
Succede che, avendo una figlia a Milano, volevo provare a spostarmi a Milano e inizio a fare una serie di colloqui. E per me si apre una posizione all'interno del gruppo LVMH su un marchio milanese.



Solo che non succede soltanto questo...
Proprio così. Perché in quel periodo la nostra azienda di famiglia, a Perugia, comincia a non andare molto bene e mi trovo davanti a un bivio: chiuderla per sempre, oppure riprenderla in mano e provare a rilanciarla in modo smart. Una delle aziende più vecchie dell'Umbria, all’interno della maglieria fondata da mia nonna del ’44. Una fabbrica con una storia importante: la Gianangeli negli anni ’70 aveva Gianfranco Ferré come designer. L’idea che tutto questo potesse andare perso non mi piaceva. E così mi sono giocato un rischio: ho messo in pausa la mia carriera nelle corporate - con il rischio di non riuscire mai più a rientrarci - per tornare in azienda e cercare di rilanciarla. Oggi, a sette anni di distanza, posso dire che tutto questo ha funzionato molto bene. E nel frattempo è ripartita anche la mia carriera nelle grandi aziende.



Che strategia avete adottato per rilanciare la Gianangeli?
Riorganizzare l'azienda per metterla al servizio dei grandi marchi del lusso. Il settore del tessile e della moda e del lusso è diviso in tanti mini-settori: qua in Umbria siamo bravi a fare produzione e sviluppo prodotto. Abbiamo così fatto una scelta radicale e deciso di scommettere sui nostri punti di forza. Noi nello sviluppo prodotto siamo sempre stati molto bravi. Lo eravamo meno nella parte di branding e di distribuzione... a un certo punto l’azienda provò anche a lanciare un marchio proprio, “Matilde Cashmere”, senza una vera strategia di mercato. E quindi ho deciso di accantonare questa strada e valorizzare le cose in cui eravamo davvero bravi per metterle al servizio dei marchi del lusso, che sono sempre alla ricerca di competenze di questo tipo in grado di lavorare sul prodotto.



Con degli standard molto alti immagino...
Inevitabilmente. Se ti interfacci con certe realtà devi farlo a livello altissimo, con un’attenzione al dettaglio massima e con una notevole velocità di esecuzione, soprattutto nelle fasi di campionario. Nel frattempo, abbiamo anche investito tanto nell’azienda in sé, nel building, nel welfare dei dipendenti. E abbiamo rimodernizzato tutti gli impianti, investito sui nuovi macchinari, dato un nuovo volto in appena quattro anni.






È stato difficile?
Non è stato semplice perché in famiglia ci siamo dovuti rimettere in discussione. Abbiamo preso un mutuo e poi abbiamo fatto quasi due anni senza stipendio, praticamente in modalità di start-up proprio. Ma oggi possiamo dire che è andata molto bene.



E a quel punto?
Una volta che l'azienda era ben organizzata e rimessa saldamente sui binari, ho cercato di ripartire con la mia carriera messa in pausa, rimanendo però proprietario dell’azienda. E così è stato. Di lì a poco è arrivata una bella opportunità con Renzo Rosso che mi ha offerto la posizione di ceo in Maison Margiela. E a quel punto sono ripartito per Parigi.



La cosa più bella di quest’ultima esperienza?
Aver lavorato per tre anni fianco a fianco con John Galliano che del brand era il direttore creativo. È stata un’esperienza quasi mistica, perché John è un genio vero. E lavorare con lui è come lavorare con Van Gogh, un artista assoluto.



E quindi con Margiela sei anche rientrato a Parigi.
Proprio così. Una destinazione che oggi mi fa felice sia professionalmente che a livello personale. Mia moglie è di Parigi, è stata al mio fianco e mi ha dato una grande mano nei miei anni perugini, e ora siamo di nuovo in Francia. Ormai fra una cosa è l’altra vivo qua dal 2013.



Hai figli?

Sì due: uno appena nato, ha tre mesi e si chiama Charles. E Giulia 9 anni, nata dall’unione con la mia precedente compagna.



Quante case hai cambiato a Parigi?
Quattro. E fra poco entreremo nella quinta...



In che zona vivi?
Ho sempre abitato nel sesto arrondissement. Parigi è una città caotica con un traffico a volte insostenibile. Così per tutelarsi si fa molto vita di quartiere.



Avendo lavorato sia a Parigi che a Milano, dove ti sei trovato meglio?
Devo dire in entrambi i posti. Milano è una città molto più facile perché è piccola rispetto a Parigi. In più ci ho studiato, ho tanti amici, è una città che conosco bene e non è ancora una città cosmopolita anche se lo sta diventando sempre di più. Dopo l'Expo ha avuto un revamp importante. Parigi è da sempre, insieme con Londra, il centro dell'Europa. Sono i due cuori pulsanti. Quindi è molto più complessa come città. Però offe anche molte più opportunità: ci sono più cose che succedono: mostre, teatri, eventi, attività di vario tipo. La stessa settimana della moda parigina, rispetto a quella milanese, ha un impatto e un’amplificazione completamente diversi.



E fra le varie settimane della moda, è proprio Parigi quella che regala più adrenalina a un addetto ai lavori?
Sì, senza dubbio. Avendo lavorato anche in Bottega Veneta, Prada e Givenchy conosco bene l’impatto sia delle sfilate milanesi che di quelle parigine. Parigi ha qualcosa in più: è molto più complessa, molto più forte, un po’ più elitaria e meno accessibile. E questa forse è la vera differenza: Milano magari è più coinvolgente, Parigi è molto più esclusiva.



Viaggi molto?
Direi di sì. Si viaggia quasi una metà dell'anno.



E ti piace o ti pesa?
Mi piace molto. Mi piace confrontarmi con persone che vivono in un ambiente completamente diverso: è qualcosa che ti permette di affrontare lo stesso argomento con prospettive culturali differenti. Capita con i miei partner di Dubai, dell’Arabia Saudita, del Giappone, della Cina, dell'America... lo trovo stimolante.



Un paese al quale sei particolarmente “affezionato”?
Il Giappone, dove ho vissuto per due anni. È stata un’esperienza splendida; ci ho lasciato un pezzo di cuore. Ero l'unico italiano nella struttura di Bottega Veneta Giappone e mi hanno accolto estremamente bene e, grazie al lavoro, grazie al team, sono entrato nei meandri della cultura giapponese che è molto chiusa e quando ci vai da turista non riesci a vedere davvero quello che c'è sotto. Io, abitando lì, anche se ero comunque un Gaijin, quindi uno straniero ma all’interno dell’apparato organizzativo, avevo accesso con loro e grazie a loro, a luoghi ed eventi ai quali altrimenti non avrei mai potuto partecipare. Cose sia “normali” che complesse: da una semplice cerimonia di matrimonio piuttosto che un evento esclusivo, una cena particolare piuttosto che un ristorante che magari è all'interno di un appartamento e quindi non è visibile su strada. Questa è un’altra grande particolarità del Giappone: quasi tutte le cose che meritano di essere viste non hanno accesso su strada, sono nascoste.



Da cittadino del mondo che cosa provi quando torni in Umbria?
La apprezzo sempre di più. Amo queste colline verdi. In generale amo il verde, c’è poco da fare. Il solo problema dell'Umbria continua a essere quello dei collegamenti... che poi magari contribuiscono al suo fascino ma non alla sua comodità... Vedo che si sta investendo molto sull’aeroporto e spero che continui la sua crescita. Certo, alle aziende farebbe comodo anche una connessione efficace su gomma. Penso al vantaggio che hanno i maglifici del Nord, del Veneto e dell’Emilia-Romagna che rispetto a noi sono collegatissimi. Questo gap per le aziende umbre comporta uno svantaggio competitivo.



A livello turistico però, numeri alla mano, il territorio sembra non risentirne...
Dal punto di vista turistico credo che sull'Umbria sia stato fatto un lavoro magnifico, grazie anche a delle iniziative private, penso ad Antognolla, a Reschio, a Borgobrufa... realtà che hanno fatto da traino, creando un bell’immaginario intorno alla Regione. Lavorando nel settore del lusso conosco bene questa dinamica.



Nel tuo futuro remoto che cosa vedi?
Innanzitutto, una famiglia sempre più grande: io già mi vedo nonno con 10 nipoti intorno di fronte a un focolare acceso, possibilmente in Umbria. Questo è il mio vero sogno. Avendo vissuto un po’ dappertutto ci sono dei quartieri di alcune città, come New York, Londra e Parigi, che sento un pochino come casa mia; ho i miei posti, i miei ristoranti, i parchi, le strade che sento familiari. Però la casa, quella vera, è sempre la tua origine. E io, quando ritorno qua e ho il Monte Tezio davanti, mi sento bene.


 

 

Matteo Grandi

A due anni leggeva Proust, parlava perfettamente l'inglese, capiva il francese, citava il latino e sapeva calcolare a mente la radice quadrata di numeri a quattro cifre. Andava al cinema, seppur accompagnato dai genitori, suonava il pianoforte, viaggiava in aereo, scriveva poesie e aveva una fitta corrispondenza epistolare con l'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. A sei anni ha battuto la testa cadendo dagli sci. Del bambino prodigio che fu restano l'amore per il cinema, per la scrittura e per le feste natalizie. I segni del tracollo sono invece palesati da un'inutile laurea in legge, da un handicap sociale che lo porta a chiudersi in casa e annullare appuntamenti di qualsiasi genere ogni volta che gioca il Milan e da una serie di contraddizioni croniche la più evidente delle quali è quella di definirsi "di sinistra" sui temi sociali e "di destra" su quelli economici e finanziari. A trent'anni ha battuto di nuovo la testa e ha fondato Piacere. Gli piacerebbe essere considerato un edonista; ma il fatto che sia stata la sofferenza (nel senso di botta in testa) a generare il Piacere (nel senso di magazine) fa di lui un banalissimo masochista.