Piacere Magazine - Piacere Magazine - Visualizza articoli per tag: ludovica marani https://www.piaceremagazine.it Fri, 29 Mar 2024 10:37:40 +0100 Joomla! - Open Source Content Management it-it Stay in or take away https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/372-stay-in-or-take-away https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/372-stay-in-or-take-away Stay in or take away
Esattamente due mesi fa atterravo a Londra. Mai stata qui prima d’ora. A sorvolare la Manica, insieme all’aereo, c’era la voglia di fare. E di bere tè ogni pomeriggio alle cinque

Non ero in cerca di lavoro, o almeno non lo ero prima di realizzare quale danno per il portafogli fosse la sterlina.

No, sono partita alla volta di Londra per un Erasmus. Un Erasmus+Traineeship, a dirla burocraticamente in modo impeccabile. Un’esperienza di quelle che “Un tirocinio all’estero, mica pizza e fichi” – commenterebbe chiunque.

Il seguito prova che aveva torto.

Ma procediamo con calma, e ricominciamo daccapo.

Esattamente due mesi fa atterravo a Londra. Con me due persone che ho a cuore, Caterina e Francesco. Partivamo in tre per poi restare in due, per rimanere infine da sola. In pratica, un arrivederci prolungato nel tempo, finalizzato a rendere la lontananza meno difficile.

Noioso ma doveroso inciso: sto via solo sei mesi; sei mesi a Londra. Va be’ che ho una camera a Brixton, ma nulla a che vedere col vivere in un luogo teatro di guerriglia o di catastrofi naturali. Questo per ricordare – e ricordarmi, soprattutto – quanto parole come lontananza ed esperienza negativa necessitino sempre di essere contestualizzate.

Fine dell’inciso.

Si e Ryanair evadam, boves centum immolaturus sum: a viaggiare con persone superstizione si impara ad essere superstiziosi, si sa. E una promessa è una promessa, soprattutto se fatta citando i classici della letteratura latina. Sacrificare cento buoi per essere atterrati sani e salvi. A Stansted c’è un solo modo per farlo: Burger King.

Prima constatazione: il cambio sterlina-euro è una truffa che ha dell’incredibile. Mentre divoro il decisamente poco economico hamburger che ho appena acquistato mi ritorna in mente Down and out in Paris and LondonSenza un soldo a Parigi e Londra: George Orwell, da buon picaro, qui narra del suo soggiorno fra stenti e lavori occasionali nelle due capitali europee. Un elenco di sistemazioni economiche per senzatetto conclude il libro. Oggi, a due mesi di distanza dal mio arrivo, capisco per la prima volta il significato di quest’opera.

Rifocillate le membra, partiamo alla volta di Londra-centro.

Seconda constatazione: non appena messo piede in città ho l’impressione di camminare in una realtà completamente diversa. Non dico migliore. Diversa: a misura di businessman, di manager, di globetrotter. Di tutte quelle figure professionali che non esisterebbero al di fuori della lingua inglese. A Londra è tutto così smart, fast, easy – per usare quel vocabolario contaminato da termini anglosassoni che tanto va di moda adesso.

Valigie alla mano, ci diamo in pasto alle vie della città.

Terza constatazione: tutti corrono, a Londra. Corrono nei parchi, corrono in macchina, corrono sulle scale mobili. Corrono sulle scale mobili in salita, come se non bastasse. I londinesi corrono soprattutto quando è ora di mangiare. Non per niente la cartina al tornasole che permette di distinguere un esemplare autoctono da un forestiero – italiano, perlopiù – è la risposta del cliente alla domanda “Stay in or take away?”, formula di rito pronunciata dal personale addetto agli ordini in ogni caffè/fast-food della città. “La magnamo o la ncartamo”, per capirci. Tutti i londinesi la incartano, c’è da starne certi. Siamo solo noi che ben contenti di pagare un sovrapprezzo per sederci ad un tavolino in un locale con free Wi-Fi, sorseggiamo in compagnia un espresso il cui sapore, in fin dei conti, non ci delude nemmeno troppo.

Non l’avrei mai detto, conoscendomi; eppure mi riscopro totalmente estranea alle logiche della competitività e dalla maniacale organizzazione del tempo che esse richiedono.

Ma tant’è. Bisognerà adattarsi, mi sono detta.

 

 

Tra fremiti di bestie, camion, gas, clacson

Vociare di mercanti a contrattare, macellai,

Fidanzati per mano, famigliole festanti,

Di sguardi petulanti, botte a chi non ubbidisce, insulti,

Residui di carovane in viaggio, orde dirette ad inseguire il sole

Occidente

Occidente

Alla guerra

Alla gloria

Alla storia

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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Diario di Bordo Tue, 07 Apr 2015 11:35:27 +0200
Qual è il futuro del giornalismo? https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/415-qual-e-il-futuro-del-giornalismo https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/415-qual-e-il-futuro-del-giornalismo Qual è il futuro del giornalismo?
Due giorni fa, a Perugia, ha avuto inizio la nona edizione del Festival Internazionale del Giornalismo

Per l’occasione ogni studente della Comunità Europea era invitato a spremere le meningi e partecipare al contest indetto da Amazon – main sponsor del festival – Qual è il futuro del giornalismo?, rispondendo all’ardua domanda con un saggio inedito di massimo 2000 parole. Ricco il bottino. Cito, ché è meglio:

 “I cinque saggi vincitori verranno pubblicati su La Stampa, El Pais, The Guardian e DWDL.de durante la settimana del Festival, e Amazon sosterrà i costi di trasporto e alloggio dei vincitori per assistere al Festival di Perugia (15-19 Aprile)”.

Perché non provare, mi sono detta.

Sono a Londra per un tirocinio giornalistico, d’altro canto.

Se riuscissi a vincere potrei tornare(gratuitamente) in Italia, ho concluso.

Ecco allora che mi sono cimentata in questa impresa direttamente da Londra.

Ovviamente non ho vinto, manco a dirlo.

Non contenta, sono persino tornata a casa per seguire il festival.

E però il mio parto voglio farvelo leggere, ché in fondo mi ci sono impegnata.

Segue nota esplicativa. Che non si aprano polemiche sul retrogusto femminista che ne traspare, pertanto.

I cinque saggi vincitori sono tutti stati scritti da donne. Vi invito a leggere qualche informazione sulle vincitrici nonché i loro testi, non appena saranno pubblicati. Rosicate un po’ insieme a me, ve ne prego!

 

 

Qual è il futuro del giornalismo?

Sono io.

Io e le persone che mi circondano.

Le persone che mi circondano ed il mondo che abitano.

Il mondo che abitano e la rete che lo avvolge.

È tutto qui il futuro del giornalismo, tutto contenuto in questa sfera che ci permette di guardare attraverso se stessa pur non essendo di cristallo, di frugare nei suoi meandri più bui all’insegna della trasparenza.

In un mondo subissato dalle informazioni, il giornalista del futuro dovrà fare luce laddove regnano le tenebre, creare ordine separando all’orizzonte il cielo dalla terra.

Infine, dovrà ricreare l’uomo.

Si cimenterà in questa impresa plasmando un nuovo tipo di pubblico: affamato di notizie, assetato di verità. E dirà che è cosa buona.

Completerà la sua opera forgiando da una costola dell’homo novus un nuovo tipo di giornalista: assetato di verità, affamato di notizie. E dirà che è cosa molto buona.

In un mondo subissato dalle informazioni, il giornalista del futuro dovrà promuovere un’informazione libera ma regolata.

I cristalli liquidi soppianteranno la carta inchiostrata, è probabile.

I mezzi di comunicazione digitale prenderanno definitivamente il sopravvento su quelli analogici, è certo.

Poco importa, in realtà. Ciò che conta è che s’intraprenda la via dell’informazione autentica: verificabile, non semplicemente verificata; di qualità, non semplicemente di quantità.

Il futuro del giornalismo è un’informazione capace di farsi controinformazione, liberamente a disposizione di chiunque voglia conoscere la verità dei fatti senza pretendere di possederla.

Semplice a dirsi, difficile – forse impossibile – a farsi: perché sempre più e più velocemente, oggi, il mondo dell’informazione scade in circo mediatico e chiunque si erige ad opinionista. Ne va del futuro del giornalismo, la cui autorevolezza viene meno e il cui profilo si fa sempre più sfumato. Occorre una mano capace di ridisegnarlo.

Nuovo umanesimo: il futuro del giornalismo è nelle mani del giornalista del futuro.

Compito arduo, rasente l’utopia. Ma non senza speranza: la palingenesi non procede ex novo. Come una fenice, essa prende forma nel tempo che è stato, vive nel tempo che è, si rigenera nel tempo che sarà. Come una fenice, essa trarrà dalle proprie ceneri la forza dirompente attraverso cui il giornalista del futuro forgerà il futuro del giornalismo.

Non c’è futuro senza presente, non c’è presente senza passato.

 

Capitolo I – Ghost of Journalism Past

Sbatti il mostro in prima pagina – Emblema del giornalista cui è bene guardare per il solo motivo di tenersene alla larga, Giancarlo Bizanti, caporedattore de Il Giornale, tesse l’elogio di quell’informazione cui nessun giornalista di nessun tempo dovrebbe mai appellarsi.

Un cittadino onesto che lavora e produce reddito, amante dell’ordine in un paese che versa nel caos – afferma il Bizanti – dovrebbe poter tornare a casa, di sera, aprire Il Giornale e sentirsi rassicurato. Non è lui il responsabile dei mali del mondo. Perché farlo sentire tale?

Ecco allora che “Disperato gesto di un disoccupato. Si brucia vivo padre di cinque figli” diventa “Drammatico suicidio di un immigrato – sin. “Calabrese” – rimasto senza lavoro”. Il cittadino onesto che lavora e produce reddito potrà approfondire la notizia, volendo; tuttavia, non sarà il senso di colpa atavico che ogni Uomo cova nella propria anima, e sul quale fanno leva un titolo ed un occhiello provocatori, che l’avrà costretto a farlo.

Semantica applicata all’informazione.

 

Capitolo II - Ghost of Journalism Present

Je suis Charlie – Emblema della libertà d’espressione cui il giornalismo guarda, di lontano e superficialmente, solo se violata, la lotta intrapresa dall’Uomo di ogni tempo per affermare il diritto di dar voce alle proprie opinioni ha origini eterne.

Libertà di, non da: ogni realtà che pretenda di essere tale ha dei confini che la delimitano. Anche la libertà, soprattutto la libertà d’espressione.

La questione è delicata: viviamo in un presente che ha fatto sua non la libertà d’espressione ma la libertà d’espressione sulla libertà d’espressione. Il pericolo è ch’essa stessa perda di valore: la rete d’opinioni – tutte ugualmente valide – che la circonda, con le sue maglie fitte, rischia infatti di soffocarne il respiro, ed il giornalista, che dovrebbe poter esercitare – mai inconsapevolmente – la libertà d’espressione per svolgere il proprio lavoro, cade lui stesso in trappola.

Gli effetti di questo perverso meccanismo sono sotto gli occhi di tutti: si attenta alla vita di un Uomo, si discute sulla validità della libertà d’espressione ch’egli ha scelto per il proprio giornale. E si esprimono pensieri tra i più disparati, tutti ugualmente veri, tutti ugualmente falsi.

La libertà è libera per definizione.

La libertà è limitata per definizione.

L’Informazione vera, quella con la I maiuscola, non guarda in faccia a niente e a nessuno.

L’Informazione vera, quella con la I maiuscola, rispetta tutto e tutti.

Di fronte a una vittima della libertà d’espressione ci sono rabbia e tristezza.

Dietro a una vittima della libertà d’espressione ce ne sono centomila che non hanno mai avuto voce.

Il giornalismo, in occasioni simili, rischia di non avere un futuro. Ogni sua analisi è scontata, ogni suo giudizio arbitrario e privo di autorevolezza. Il mostro da sbattere in prima pagina, la Verità, non è poi così facile da domare: ha infiniti volti, tutti diversi in superficie, tutti ugualmente insondabili in profondità.

 

Capitolo III – Ghost of Journalism Yet to Come

Qual è il futuro del giornalismo? – Indossa una lunga veste nera e ci porge la sua mano esile ed evanescente. Il futuro del giornalismo ci proietta in uno scenario a tinte fosche; è tutt’altro che roseo.

Le premesse, d’altronde, sono inequivocabili: l’informazione si arrischia verso un futuro sempre più oscuro, talmente oscuro da renderla prossima alla cecità.

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.

In un tempo in cui l’informazione sarà mossa dalla sola volontà di autoregolarsi, il giornalista cesserà di avere un profilo delineato e la sua voce non avrà eco. Finirà per perdere d’importanza, diverrà un opinionista fra tanti. La mancanza di autorevolezza ascrivibile ad alcuni giornalisti, oggi, sarà estesa a ciascuno di loro, domani.

D’altro canto, è forse questa la giusta fine per un giornalismo votato al chiacchiericcio querulo informato e sordo, come spesso accade in questo nostro presente.

Il fantasma del giornalismo futuro viene a mostrarci la fine di un’era. A seguire, nulla sarà più come prima.

Ma. C’è pur sempre un Ma. Niente è realmente perduto laddove esiste anche solo un barlume di speranza. Nonché di professionalità. L’uomo che sogna, oggi, di poter diventare un giornalista, domani, è lui stesso questa speranza. La sua voglia di fare, di migliorare lo stato in cui versa la comunicazione, di trovare una soluzione alla disinformazione e alla cattiva informazione, tutto ciò permetterà a questo barlume di trasformarsi in una luce rischiarante ed indagatrice.

Credere che la terra, in tal modo, non avrà più il suo lato oscuro è una pretesa irreale ed irrealizzabile. È una consapevolezza, questa, di cui non bisogna mai perder traccia: già molti decenni prima della venuta del giornalista del futuro qualcuno avrà parlato dell’impossibilità di afferrare la verità nella sua interezza. Quella finalizzata al conseguimento della verità, piuttosto, è una ricerca destinata a non avere posa, alla stregua di un albero in crescita che più s’innalza più si ramifica. Ciò nonostante e proprio per questo essa merita di essere intrapresa, domani come oggi, oggi come ieri. Nessuno, infatti, può dirsi immune di fronte al fascino esercitato da suddetta verità: tangibile o sfumata che sia, essa deve necessariamente essere la causa prima ed il fine ultimo dell’Informazione, sia per chi informa sia per chi viene informato.

Solo così, in un futuro in cui vi saranno più informazioni che fatti, il giornalista cesserà di essere un fantasma e riacquisterà il profilo che gli spetta. A lui l’onore e l’onere di tracciare linee guida, perché vi sarà sempre più bisogno di qualcuno in grado di indicare la via. A lui l’onere e l’onore di aprire gli occhi, sia i propri sia quelli del pubblico pagante, di fronte alla controinformazione. A lui l’onore e l’onere di utilizzare adeguatamente i mezzi di comunicazione che avrà a sua disposizione, per un’informazione d’effetto ma non spettacolarizzata. A lui l’onere e l’onore di selezionare le notizie da riferire, mai celando la propria opinione, mai tenendo in considerazione soltanto questa. Infine, ma non per importanza, il giornalista del futuro dovrà rispettare se stesso prima ancora degli altri: solo così potrà offrire loro un’informazione di qualità, la medesima ch’egli avrà preteso per se stesso.

Nuovo umanesimo: il futuro del giornalismo è nelle mani del giornalista del futuro.
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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Diario di Bordo Fri, 17 Apr 2015 12:51:22 +0200
Bowden Court https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/435-bowden-court https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/435-bowden-court Bowden Court
Il primo mese l’abbiamo trascorso qui, a Bowden Court. Non si tratta di un quartiere di Londra, ma di un ostello nel cuore di Notting Hill

Un mese in un ostello: roba da matti, direte. Devo confessare, in realtà, che è stato un soggiorno niente male.

Anzitutto, trattasi di Notting Hill: zona un tempo malfamata – così leggo su internet; personalmente parlando, la conferma a questa tesi si materializza sotto forma di Selden, celebre assassino di Notting Hill ne Il mastino dei Baskerville – oggi quartiere tra più ricchi e chic della città. L’ideale per una laureata in filosofia, ça va sans dire.

Secondo, ci trovavamo qui insieme ad un centinaio di altri ragazzi, tutti studenti della scuola di inglese adiacente all’ostello.

E se ancora non foste convinti, aggiungo il terzo ed ultimo fattore, quello determinante: il cibo. La mensa era in mano ad un gruppo di ragazzi che, devo confessarlo, hanno cucinato pietanze sorprendentemente buone. Passino i bagni condivisi e le compagne di stanza di simpatia discutibile, allora. Sentirsi un branco di pesci fuor d’acqua in un quartiere alla moda non ha prezzo, soprattutto se nutriti a paella e lasagne.

Il piano per il primo mese era abbastanza lineare: corso di lingua (inglese, bando agli equivoci. To improve my English level), sightseeing (vedi sopra, sezione effetti collaterali), fare nuove conoscenze. Partiamo dall’inglese, ché poi il resto viene da solo.

Nonostante abbia capito che studiare inglese qui a Londra sia controproducente (non fosse altro che per la quantità di italiani che la popola), tuttavia la scuola che ho frequentato mi ha colpito positivamente. Una macchina mangia soldi eh, che però ti dà l’impressione di star facendo un investimento su te stesso. Organizzazione impeccabile delle lezioni, supporti didattici di alto livello, ottimi insegnanti. Tranne la mia: Meenu, questo il suo nome, non aveva granché voglia di lavorare. Una mosca bianca, qui a Londra.

Soprattutto, studenti da ogni parte del mondo. Nella mia classe, in ordine di simpatia: una spagnola, una turca, un giapponese, due arabi, due brasiliane, uno svizzero, due italiani. No, un italiano – uno svizzero – un italiano.

Mi sono affezionata a ciascuno di loro. Febbraio è finito, il mio posto in ostello è stato ceduto a un altro studente e nel frattempo io ho cambiato casa un paio di volte ed iniziato il mio tirocinio. Con tutti loro, però, sono ancora in contatto. Molti sono ripartiti, altri sono rimasti a Londra in cerca di lavoro. Nessuno, tuttavia, ha smesso di farsi vivo. Chi su facebook, in diretta dal Giappone. Chi per messaggio, dalla Spagna. Chi via Skype, in collegamento dal Brasile. Chi in una tea room, qui a Londra. Si parla in inglese, ci si aiuta con i gesti, si costruiscono amicizie. Quest’estate, a voler dire di sì a tutti, dovrei volare a Madrid, poi a Tokyo, infine ad Istanbul.

Per la prima volta scopro la bellezza di avere interessi in comune a chilometri e chilometri di distanza, l’imprescindibilità di interagire con una visione della realtà totalmente altra da me, lo stupore nell’ascoltare storie di vita che nulla hanno a che fare con la mia. Scopro altresì il solo merito del caffè americano preso in compagnia: l’essere talmente diluito da richiedere un tempo interminabile per venire sorseggiato fino all’ultima goccia. L’ideale per i racconti di vita, altro che la birra.

Quest’ultima, piuttosto, ha fatto da guida nell’esplorazione della città. Muoversi alla ricerca di un pub significa partire alla scoperta di ogni vicolo di Londra. Abbiamo viaggiato molto, durante il primo mese. Dal mercato di Portobello Road, dietro l’ostello, siamo approdati a Camden, Greenwich, Soho, St John’s Wood, Covent Garden e chi più ne ha più ne metta. Una X sulla mappa della metro per ogni posto visitato: ho finito l’inchiostro e non sono nemmeno a metà dell’opera. Vorrei poter dedicare un intervento a ciascuno di questi posti. Non per descriverli ed assegnare punteggi: a questo già ci pensa egregiamente la Lonely Planet. No, per fissare una volta per tutte i ricordi legati ad ognuno di questi nomi. Con chi ero, cosa ho pensato del discutibile accostamento fra edifici vittoriani e grattacieli dall’aspetto futurista, le parole dette e quelle solo sussurrate, a quale bancarella mi sono fermata ad assaggiare una prelibatezza esotica, di quale libro ho annusato il profumo in uno dei tanti mercatini dell’usato. Non mancherò di farlo, se riuscirò a ricavare tempo in questa città che di tempo sembra non averne mai. Per ora, mi limito a dedicare un pensiero a Primrose Hill. Che poi non è mio. Ci pensa Blake ad esprimere come meglio non si potrebbe la sensazione che fa seguito alla conquista della cima di questa splendida collina di primule, punto privilegiato di osservazione dell’intera città.

I have conversed with the spiritual sun. I saw him on Primrose Hill.
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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Diario di Bordo Mon, 27 Apr 2015 09:49:41 +0200
Londra è donna https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/508-londra-e-donna https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/508-londra-e-donna Londra è donna
From Kensington to Billingsgate

One hears the restless cries!

From ev'ry corner of the land:

"Womankind, arise!"

Political equality and equal rights with men!

Take heart! For Missus Pankhurst has been clapped in irons again!

Londra è uomo, non c’è che dire.

Eppure, Londra è anche donna. Tralasciamo il cliché della regina, non sia mai. Sorvoliamo la parentesi Thatcher, che è meglio. No, il volto femminile di questa città ha per me tutt’altro aspetto. E tutt’altri nomi.

Sultan. Belén. Valentina. Bianca.

Dalla Turchia all’Italia passando per la Spagna, questi sono i nomi di quattro ragazze che ho avuto la fortuna di incontrare in questa città. Senza di loro questo soggiorno all’estero sarebbe stato totalmente diverso. Diverso in senso negativo, intendo. Ne sono certa: ecco perché intendo dedicargli (sì, lo so. Gli alfieri della grammatica italiana sono pregati di sorvolare) questo intervento. Mi dispiace che alcune di loro dovranno googlare la traduzione: spero vivamente che Google Translate non approfitti dell’occasione per superarsi (per ulteriori informazioni vedi http://www.wired.it/internet/web/2014/09/29/50-disastri-di-google-translate/), pena crisi diplomatica internazionale. Vedrò di fare attenzione a come scrivo ciò che scrivo.

Ho conosciuto Sultan e Belén a Notting Hill, poco dopo essere arrivata.

Sultan, da Istanbul, è volata a Londra esattamente un anno fa. È la sua ottava volta, qui. Otto volte a Londra che vanno ad aggiungersi ad innumerevoli altri viaggi ai quattro angoli della terra. Invidio molto questa sua voglia di girare il mondo. Niente di più semplice – direbbe qualcuno: con i soldi alla mano si compra ciò che si vuole, anche la voglia di viaggiare. Nulla di meritevole in tutto ciò. Vi dirò, in realtà, che non è affatto così. Che i soldi facciano girare il mondo è un dato di fatto. Che, per traslato, essi facciano girare anche noi che in questo mondo ci viviamo, è una conseguenza logica. Chi oserebbe negare che viaggiare è un lusso per pochi? Nessuno oserebbe tanto. Eppure, viaggiare per aprirsi incondizionatamente ad altre culture è una virtù che altrettanti pochi possiedono, e non ha niente a che vedere con le risorse economiche di cui si dispone. Io questa virtù non ce l’ho; Sultan sì. Sultan ha sete di rapporti umani, pur conoscendo profondamente il valore della solitudine. Tralascerò il fatto che ha sconfitto il cancro; non menzionerò la sua decisione di rinunciare al proprio lavoro spinta dalla necessità di reinventarsi al di fuori dei confini con cui aveva inizialmente definito, poi cristallizzato la sua personalità; eviterò di dire che ha deciso di imparare una nuova lingua, l’inglese, a ** anni, superando in bravura chi come me l’inglese lo studia dalla prima elementare. Dirò solo che Sultan è una persona eccezionale, con un’amazzone tatuata sulla schiena dall’aspetto alquanto discutibile, non c’è che dire, ma che la dice lunga su chi realmente lei sia.

Belén, originaria di León, si trovava a Londra per perfezionare il suo inglese in attesa che gli annunci di lavoro cui aveva risposto in Spagna dessero qualche frutto. Alle sue spalle: una laurea, un corso di specializzazione, un lavoro felicemente ottenuto, prima, felicemente lasciato, poi. Di fronte a sé: nulla. Eppure, nonostante ciò, è proprio da lei che ho ricevuto i consigli migliori su come affrontare il mio malaugurato tirocinio, su come cercare un appartamento, su come muovermi agilmente in questa città così caotica. Ho avuto troppo poco tempo per godere della sua saggezza, in realtà: a un mese di distanza dal suo arrivo le opportunità di lavoro sono sopraggiunte una dopo l’altra. Le application presentate a Madrid avevano fatto centro: per Belén, neanche un mese dopo essere atterrata, era nuovamente tempo di partire. Per quanto le avesse aspettate quelle risposte, la loro tempestività giungeva inaspettata. Non che non fosse contenta. Tutt’altro. Vedere che le proprie competenze pagano anche in un paese come la Spagna – nazione soggetta ad un crisi talmente incisiva da rendere semplice, per Belén, comprendere a fondo la precarietà che affligge la vita di una studentessa italiana – è un belvedere, non c’è che dire. No, il fatto è un altro: il futuro l’ha colta alla sprovvista. Ora Belén si trova a Madrid: ha lasciato León, la sua città, per inseguire un’opportunità del tutto inaspettata. Rien ne va plus, les jeux sont faits. Che altro dire? Ci vuole coraggio, di nuovo. E non sarà questa l’ultima volta che lo dirò, in questo mio intervento. Brace yourself.

Valentina, di Udine, è seduta di fronte a me esattamente ora, mentre sto scrivendo queste poche (troppe?) righe. Se non ci fossimo incontrate, tre mesi fa, avrei fatto le valigie e me ne sarei tornata a casa. È la mia compagna di sventure: come me, infatti, è incappata nel tirocinio presso *************. La differenza è che io ci sono stata mandata dall’università. Una sorta di suicidio assistito, in pratica. A Valentina, invece, è stato suggerito da un’amica. Conoscente, è forse il caso di dire. O meglio nemica, vista e considerata la natura del tirocinio. La prima volta che ci siamo incontrate è stata in occasione del nostro primo colloquio con il direttore del suddetto giornale. Luogo prescelto per un appuntamento così importante: lo Starbucks di Victoria Station. Avremmo dovuto iniziare a dubitare della validità del tirocinio sin da questo momento, direte voi. Ma eravamo giovani (tre mesi fanno esperienza, non c’è che dire) ed inesperte. Da quel pomeriggio di febbraio, un po’ per lavoro ma soprattutto per piacere, abbiamo continuato a tenerci in contatto. (S)parlare di un direttore ha i suoi lati positivi. In fin dei conti, la tragica piega assunta dagli eventi ci ha fatto divertire: nessuna sede presso cui svolgere il tirocinio, nessuna redazione con cui poter interagire, nessun criterio ragionevole di selezione e correzione degli articoli. Di certo non sarebbe stato divertente neanche un po’ se non ci fosse stata Valentina. Ora, con sua grande fortuna, il suo tirocinio è finito. E mentre per me non è ancora arrivato il momento di archiviare questa tragica esperienza, lei si sta preparando ad entrare nel mondo del lavoro vero e proprio. Perché sì, forse è il caso di dirlo: Valentina, ventisettenne, si laurea in lingue ad Udine, consegue la laurea magistrale in letteratura inglese a Heidelberg, lavora come au pair nel Regno Unito. Conosce perfettamente l’inglese, il tedesco, l’italiano (informazione non così scontata). Sa come vanno le cose nel mondo; soprattutto, sa come vanno le cose a Londra: con lei ho imparato a preferire il bus alla metro, Lidl a Sainsbury’s, la zona 2 alla zona 1, la zona 3 alla zona 2. Tutti motivi che spiegano – ma non bastano, in realtà – perché sia stata assunta in un’importante casa editrice londinese. Inizierà a lavorare la prossima settimana. Sarà brillante. E nonostante abbia appena trovato una stanza in una casa abitata da soli russi, sono certa che il suo soggiorno londinese sarà un successo sia personale sia professionale.

Dulcis in fundo, Bianca. Bianca è la mia coinquilina. Benché in casa ci siano altre due persone eccezionali, lei è la migliore che mi potesse capitare. Siamo anche un po’ parenti, a dirla tutta. Mia nonna e suo papà sono cugini. Non saprei dire se scorre lo stesso sangue nelle nostre vene: chi ne capisce niente di parentele. So solo che Bianca è una forza della natura, e che se condividessi con lei anche solo un pizzico della sua audacia, allora potrei dirmi a posto per il resto dei miei giorni. Senese (benché odi essere chiamata così), ventiduenne, disoccupata – Bianca sbarca a Londra in cerca di lavoro. Campo d’interesse: moda. È probabile che nella mente di ogni lettore, a questo punto, si stia creando un’immagine artefatta e fuorviante di Bianca. Perché, diciamocelo, è difficile figurarsi un’appassionata di moda senza rischiare di fare confusione. Ci penso io a chiarire l’eventuale qui pro quo. Appassionata di moda nelle sue manifestazioni più stravaganti e, strano a dirsi, più sobrie, Bianca è la ragazza acqua e sapone di cui tutti, almeno una volta, avrete sentito parlare. Bella di una bellezza indefinibile, ciò che mi sorprende di più di lei è la sua forza di volontà, la sua bontà, la sua schietta e mai offensiva sincerità. Se non ci fosse lei in casa me ne starei tutto il giorno a letto a poltrire. E invece Bianca c’è. C’è e canta a squarciagola; e ascolta la musica ad alto volume; e mi convince ad attraversare Londra da un capo all’altro con la sola forza delle gambe. Bianca c’è, e con lei Londra può finalmente far conto su una lavoratrice instancabile: da gennaio ad oggi, ogni giorno della settimana dal lunedì al venerdì, Bianca sta realizzando tirocini su tirocini, quasi instancabilmente. E poiché una retribuzione nel campo della moda è cosa impensabile (quantomeno agli esordi; ma quanto durano questi esordi?), la sola forza che la muove è la forte passione per il disegno e la moda insieme al desiderio di fare di quest’ultima un lavoro appagante nonché retribuito. Una forza che si manifesta anche nella sua cucina: tutto ciò che può essere ingerito, a sua detta, deve essere condito con peperoncino in abbondanza. Per non parlare dell’abuso che fa del pepe. Roba da denuncia, se non fosse per il bene che ho imparato a volerle. Andarmene da Londra, a luglio, sarà difficile perché dovrò lasciarla qui. Se il suo ragazzo acconsentisse, me la porterei in valigia fino a casa. (S)fortunatamente, questa città ha bisogno delle sue potenzialità. Chi sono io per negare a Londra questo ennesimo esemplare di cervello in fuga?

 

Non so come concludere, probabilmente perché ho scritto troppo. Ma direi che può andar bene anche così, ché tanto avrete smesso di leggere già a metà articolo. O forse anche prima.

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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Diario di Bordo Mon, 18 May 2015 12:20:49 +0200
Erasmus+ Traineeship https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/552-erasmus-traineeship https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/552-erasmus-traineeship Erasmus+ Traineeship
Al fin giungemmo, e non di certo a riveder le stelle. No, siamo finalmente arrivati alla parte migliore di questo mio soggiorno londinese. Il celebre, tentacolare, deludente Erasmus+ Traineeship. Trattasi di una lunga storia: non vogliatemene a male se la dividerò in puntate.

Tutto ha avuto inizio lo scorso settembre. La discussione della tesi si avvicinava inesorabilmente, e con essa anche i più temibili dubbi sul mio futuro. In linea teorica avrei dovuto iniziare la magistrale, tuttavia – sarà forse colpa dell’Università degli Studi di Perugia – di quello studio matto e disperatissimo fine a se stesso in ogni sua sfaccettatura mi ero proprio stancata. Chi mi conosce sa che studiare è forse la mia più grande passione. Dico forse perché Giovanni Lindo Ferretti è pur sempre imbattibile. Ebbene, quando studiare ti piace davvero, rinunciare allo studio accademico rappresenta una scelta più complicata di quella fra nutella e marmellata di fichi e mele cotogne. Per fortuna, cadeva a fagiolo questo nuovo programma Erasmus, l’Erasmus+ Traineeship. La novità sta nella possibilità sia per studenti sia per neolaureati di volare all’estero in uno dei paesi di questa nostra discutibile Unione Europea per svolgere un tirocinio (miseramente) retribuito dall’università. Qualsiasi tipo di tirocinio? No, ovviamente. Un tirocinio in linea con il proprio piano di studi. Per le facoltà scientifiche, com’è ovvio e giusto, esisteva già un elenco di sedi convenzionate (università, aziende di varia natura, enti pubblici e privati) fra le quali poter scegliere. Niente di più semplice: ti basta selezionare il tuo campo d’interesse, fare domanda, venire accettato, partire. Per gli studenti delle facoltà umanistiche, com’è giusto e ovvio, niente di niente. Puta caso che tu sia una laureata in filosofia interessata a trasformare le tue conoscenze (accademiche) in competenze (lavorative), e che tu sia venuta a conoscenza di questo nuovo programma Erasmus che sembra fare proprio al caso tuo. Ecco: immagina che questa – ovvero la mia – sia la tua situazione, mio caro lettore. Ebbene, preparati a sentirti rispondere dall’università che, per mancanza di convenzioni, potrai senz’altro partire – di questo non c’è da preoccuparsi – ma dopo aver trovato tu stesso un partner all’estero disposto ad accettarti. Il tutto rispettando le scadenze del bando, che di peggio non ce n’è.

Ecco allora che la mia caccia al tesoro – tesoro, poi: mai parola fu più sbagliata – ha avuto inizio subito, fra la stesura della tesi e le serate con gli amici. Ho inviato il mio curriculum a destra e a manca, ho scritto le mie prime cover letter, ho chiesto aiuto ad amici e ad amici di amici. Tutto fumo e niente arrosto. L’Erasmus+ Traineeship, lo scorso settembre, era un programma ancora troppo giovane per godere di una qualche forma di fiducia: nessuna delle persone da me contattate sapeva bene come funzionasse, e senza l’università dalla mia parte stringere accordi è stato praticamente impossibile. Ora che ci penso, avrei dovuto immaginare di non poter stabilire un qualche tipo di collaborazione con un partner all’estero senza beccarmi una fregatura. Così è stato, ovviamente. Ad ogni modo, se avessi scritto questo intervento due mesi fa avrei dichiarato di essere pronta a tornare indietro per non commettere lo stesso errore, scegliendo la magistrale piuttosto che un’esperienza all’estero come questa. Per fortuna il tempo aggiusta tutte le cose. Il tirocinio rimane una vergogna, sfortunatamente. Tutte le persone che ho incontrato qui, tuttavia, sono riuscite a trasformare questa sventura londinese in qualcosa di (quasi) perfetto. Resterò qui ancora due mesi, ma devo proprio ammetterlo: l’idea di tornare a casa non mi alletta per niente.

Bando ai sentimentalismi, per ora. Qui si parlava di un disastroso tirocinio. Che si passi ai ringraziamenti, dunque: è merito del mio delegato Erasmus di dipartimento se ho trovato questo esilarante tirocinio giornalistico presso *************. Testata giornalistica online con portale sia in inglese sia in italiano, ************* offre tirocini giornalistici a studenti provenienti da tutta Europa. Tirocini gratuiti, ovviamente, che tuttavia pagano in termini di formazione, esperienza sul campo e professionalità. Questo quanto millantato. Sfortuna vuole che io non possa citare direttamente il titolo del giornale: sfiderei volentieri chiunque a non rimanere ammaliato dall’offerta di tirocinio che esso propone online. Ci credo che ci sia cascato anche il delegato Erasmus!

Che si invii la richiesta per l’accordo, allora. Mai nessuno fu più contento di me nel ricevere un sì: *************, o meglio il suo direttore, ha subito accettato la mia domanda. Uniche richieste preliminari: un articolo di prova in inglese, un articolo di prova in italiano, infine un colloquio via Skype.

Trovata la sede all’estero, il peggio era ormai passato – ne ero convinta. Chi l’avrebbe mai detto che la parte più stressante sarebbe arrivata solo dopo. Scartoffie da compilare, firme autografe da scansionare, documenti ufficiali da bollare. Prepararsi per un Erasmus è un po’ un’epopea. Gilgamesh avrebbe desistito. Io no: la mia corsa contro il tempo, alla fine, ha dato i suoi frutti. L’ultimo giorno utile per la consegna dei documenti è stato un parapiglia generale. Che poi, era anche il giorno che precedeva la discussione della mia tesi. È facile immaginare il mio stato d’animo. Eppure, che ci crediate o meno, tutto è andato liscio come l’olio.

Questo, almeno, è quello che pensavo.

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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Diario di Bordo Wed, 03 Jun 2015 12:01:23 +0200
La legge di Murphy https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/595-la-legge-di-murphy https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/595-la-legge-di-murphy La legge di Murphy
Se qualcosa può andar male, andrà male”. Mai assioma fu più azzeccato nel caso del mio Erasmus. Un ringraziamento speciale ad Arthur Bloch, allora, per aver sintetizzato così perfettamente il black humour dell’ingegner Murphy.

Riprendiamo le fila del discorso.

Per il nostro primo colloquio, a fine febbraio, il direttore del giornale mi ha convocato nello Starbucks di Victoria Station. “Lo trovi all’uscita E della metro”, diceva. Come potrete immaginare, ovviamente, non esiste alcuna uscita E. Fortunatamente non sono stata l’unica a scoprirlo sul posto: anche Valentina, l’altra stagista, ha trascorso diverso tempo a cercarla. Questo fino a quando il personale della stazione non è intervenuto negandone l’esistenza, e addirittura sollevando dei sospetti su queste indicazioni così imprecise. Ad aver dato retta alla saggezza degli impiegati della TfL

Se mai vi dicessi di incontrarci alla gelateria Veneta all’uscita E del Minimetrò sono certa che tutti voi arrivereste a destinazione nonostante l’errore. Londra, però, è una città tentacolare ed individuare uno Starbucks nei pressi di una stazione può trasformarsi in una ricerca più difficile di quella dell’ago in un pagliaio.

Con un po’ d’ingegno, ad ogni modo, sono arrivata a destinazione. Valentina era già lì, seduta di fronte ad una tazza di tè fumante tutt’intenta a parlare con il grande capo. Non l’avevo mai vista prima d’allora né sapevo nulla di lei: ****** mi aveva soltanto detto che al colloquio saremmo state presenti io e un’altra tirocinante per ricevere entrambe le prime dritte e indicazioni. Un gran sollievo, in effetti. Perché varcare la soglia di quel caffè è stato l’inizio della fine, e per queste cose, si sa, è sempre meglio essere in due. Il monologo propinatoci subito dopo parla da sé.

Occorre puntare al giornalismo di qualità e dire basta alla maniera italiana di fare informazione, così meschina e superficiale. I giornalisti italiani sono essi stessi schiacciati dal circo mediatico di cui fanno parte, votato com’è ai gossip e allo scoop da prima pagina. Non si guardi al loro esempio, pertanto; si guardi piuttosto al giornalismo inglese, così dinamico e mai stanco di notizie. Londra è una città che non dorme mai: per stare al suo passo occorre essere individui scattanti, vibranti, brillanti. Il tempo, qui, ha tutt’altro valore. Dovrete essere in grado di sfruttare ogni singolo istante, minuto, attimo a vostra disposizione per andare a caccia di notizie. D’altro canto, qui le notizie sono sotto gli occhi di tutti in ogni momento della giornata ad ogni angolo della città. Tutto sta nell’arrivare per primi. Computer alla mano, ragazze. Starbucks, libraries, un qualsiasi locale con rete Wi-Fi gratuita: è qui che dovrete fiondarvi con la notizia ancora calda, pronte a metterla per iscritto e a lanciarla in rete seduta stante. Londra non è l’Italia. Londra non aspetta nessuno, cosa credete?

Doverosa precisazione: tutte le parole finora riportate sono vere, giuro. Chiamatele pure specchietti per allodole, slogan pubblicitari di bassa qualità, cazzate. Eppure sono state pronunciate esattamente così, e senza remora alcuna. È in momenti come questo che rimpiango la mancanza di un registratore, devo ammetterlo: perché vedete, la cosa più esilarante è che ****** è italiano. Sfortunatamente non sono riuscita a trovare notizie sulla sua carriera accademica o professionale al di fuori di quelle fornite nel sito web del suo giornale. Stando alle uniche fonti a mia disposizione, comunque, dopo aver conseguito una laurea scientifica ed aver lavorato in un prestigioso centro di ricerca, il suddetto direttore si sarebbe trasferito nel Regno Unito (cambiando persino il proprio nome) per inseguire la sua più grande passione, il giornalismo. Dietro l’apprezzamento di colleghi legati ad importanti testate giornalistiche locali avrebbe dunque fondato il suo magazine, ormai rinomato ed avente alle spalle diversi anni di lavoro.

Sede? Nessuna.

Redazione? Non pervenuta.

Modalità di sostentamento del giornale? Ignote.

Certo è che prima di cacciarsi in una situazione di questo tipo, la ragazza avrebbe potuto almeno verificare queste informazioni basilari – direbbe chiunque a questo punto. Fatto sta che nell’accordo Erasmus da lui compilato, ovvero nella sezione relativa alla sede d’accoglienza, tutti questi dati ****** li aveva inseriti. La sede di lavoro c’era come anche i dettagli numerici relativi all’organico del giornale. Solo dopo essere arrivata a Londra sono stata aggiornata sul trasferimento della sede (inesistente ancora oggi, dopo quattro mesi), quindi sull’impossibilità di incontrare la redazione nell’immediato (ma neanche in tempi lunghi, a quanto pare, dato che non ho ancora avuto il piacere di conoscere altri oltre al direttore). D’altro canto – ci ha subito assicurato – trattasi di freelance che “continuano a collaborare” da tutta Europa. Che cosa vorrà poi dire quest’ultima espressione davvero non lo so. Né lo saprò mai, credo. La parte peggiore di questo inizio così disastroso, infatti, non è il giornale in questione né il suo direttore. No, sfortunatamente il ruolo più ingrato l’ha ricoperto la mia università. Strano a dirsi, impossibile a credersi. Eppure, informata nell’immediato di tutte queste irregolarità, l’Università di Perugia non ha fatto altro che alzare le mani. Dopo un primo interesse dimostrato dal delegato Erasmus di dipartimento alla luce dell’insolita vicenda – Niente sede? Niente redazione? Un direttore di giornale che pubblica articoli con più errori grammaticali di quanti ne farebbe un bambino di cinque anni? Si tenga alla larga dal soggetto, e subito! – il nulla. Il nulla nel vero senso della parola, credetemi: alla mia domanda sulla possibilità di cambiare tirocinio, nessuna risposta concreta; alla mia domanda sulla necessità di verificare le irregolarità in questione, nessuna risposta concreta. Per fortuna che per comunicare più agevolmente il professore in questione mi ha lasciato il suo numero di telefono. Ho dei messaggi da far rabbrividire persino Whatsapp: Il valore formativo di un tirocinio sta anche e soprattutto nel tuo senso critico; Nel frattempo, comunque, puoi restare a Londra cercando altro da fare; Mi raccomando, tieni un diario in cui annotare tutte le irregolarità del caso – l’ho fatto ovviamente, ma nessuno mi ha più chiesto nulla – e cerca almeno di goderti le serate londinesi.

Della serie oltre al danno anche la beffa.

Chiedo a questo punto l’opinione del lettore. Immaginati a duemila chilometri di distanza da casa, circondato da mentecatti a destra e a manca, sommerso da improbabili irregolarità burocratiche e avente di fronte a te altri cinque lunghi mesi di tirocinio. Ebbene, mio caro lettore, eccoti servite le mie domande. Che poi sono le stesse che mi sono posta io. Tu come ti saresti mosso? Cosa avresti fatto dopo aver rinviato di un anno la magistrale per svolgere un tirocinio formativo all’estero che tutto si stava dimostrando tranne che formativo?

Ora come ora non biasimo (più) la mia scelta: rimanere a Londra mi ha fatto bene. Ha fatto bene al mio inglese, alla mia timidezza, alla mia precedente incapacità di convivere con persone sconosciute, alla mia sete di amicizie, alle mie aspirazioni professionali, al mio bisogno di interrompere momentaneamente i rapporti con l’università per riprendere con tutt’altro spirito la carriera accademica.

Se per questi ed altri motivi io debba ringraziare la mia università o il giornale qui a Londra, tuttavia, è fuori discussione. La terza ed ultima parte del racconto convincerà anche voi.

 

Un ringraziamento speciale lo devo però a Francesco Prete, per l’ipnotico gatto imburrato che potete ammirare a inizio articolo.

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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Diario di Bordo Tue, 16 Jun 2015 16:01:37 +0200
Tutto è bene quel che finisce bene https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/642-tutto-e-bene-quel-che-finisce-bene https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/642-tutto-e-bene-quel-che-finisce-bene Tutto è bene quel che finisce bene
Non che questo epilogo possa valere per la mia storia. Piuttosto, lo dedico a tutti quei cervelli in fuga che a Londra hanno trovato un lavoro conforme ai propri studi e interessi e ne hanno fatto un salvifico lasciapassare per quella rosa di beati cui tutti, in un modo o nell’altro, speriamo un giorno di poter accedere: il regno dei cieli. In altre parole, la dimora di chi ce l’ha fatta.

A disastrose premesse non poteva far seguito che un disastroso inizio. A un disastroso inizio non poteva far seguito che una catastrofe. Ed è così che il 2 marzo la catastrofe, il mio tirocinio, ha avuto inizio. Oggi sono trascorsi esattamente quattro mesi da quel fatidico giorno, e benché ne manchi ancora uno sono certa che le cose non cambieranno poi molto da qui a fine luglio, quindi tanto vale raccontare questo tirocinio per quel che è stato.

Valentina ed io, dopo l’esilarante primo incontro da Starbucks, abbiamo avuto carta bianca sui pezzi da scrivere. Parlate di cosa volete, andate a caccia delle notizie più interessanti, date ai vostri articoli un taglio accattivante. Questi i soli moniti cui far riferimento. Niente di meglio per potersi esprimere appieno e poter dar sfogo al proprio estro. O no? In realtà, quando si è liberi di fare qualsiasi cosa per carenza di direttive, il problema sussiste eccome. La libertà d’espressione non passa attraverso la mancanza di regole, ça va sans dire. Che ai tirocinanti venga offerta questa chance è dovuto al solo fatto che il tirocinio, ahimè, non ha valore formativo. Ci vogliono le dovute competenze per svolgere adeguatamente il ruolo del mentore. Individuare una notizia, riportarla secondo i dettami del buon giornalismo, scriverla in una lingua differente dalla propria quindi rivolgerla ad un pubblico altro, approfondirla quanto necessario con i giusti strumenti: sono tutti insegnamenti, questi, che esulano dall’improvvisazione, ed anzi richiedono un bagaglio d’esperienza che non si può pensare di poter trasmettere ad altri se non lo so si possiede in prima persona. Non puoi improvvisarti giornalista come non puoi improvvisarti ingegnere.

Inciso: so che la realtà dei fatti basta essa sola a smentire me, le mie idee, quella mia ultima affermazione. Parlo in linea teorica, piuttosto. Fortunatamente c’è ancora spazio per il buonsenso e l’illusione in un diario di bordo. Fine inciso.

Non puoi insegnare ad altri a fare del buon giornalismo se non sai fare del buon giornalismo, dico io. Fortuna l’impegno e la serietà dei giovani, i soli ingredienti pronti all’uso – gratuitamente, spesso e volentieri – onde risollevare le magnifiche sorti e progressive dei lavori abborracciati messi in piedi dai disonesti.

La libertà concessaci, ad ogni modo, aveva un suo prezzo: ogni articolo inviato al direttore poteva essere caricato nel portale internet del giornale con una serie infinita ed imbarazzante di errori grammaticali frutto del suo lavoro di revisione; e ancora, ogni tot articoli scritti in libertà ci veniva commissionato un pezzo in cui, pur parlando d’altro, eravamo costrette a focalizzare l’attenzione su di un certo personaggio italiano di spicco a Londra – di quegli italiani blasonati, per capirci – legato in qualche modo alla vicenda trattata. Non c’era di che lamentarsi, però: persino quando non avevamo idee a portata di mano il direttore era sempre pronto a suggerirci notizie tra le più strampalate, sorpassate, superficiali.

Almeno hai imparato a scrivere in inglese.

No: gli articoli in inglese non vengono mai corretti.

Magari sono perfetti.

Dubito: in alcuni casi, per mancanza di voglia, abbiamo tradotto gli articoli dall’italiano all’inglese utilizzando Google Translate. Va be’ che il nostro amor proprio ci spingeva a ricorreggere il tutto, ma tu – direttore – non riesci a renderti conto che quello che ti stiamo presentando altri non è che il frutto di una traduzione automatica? Un articolo pensato e scritto in italiano, tradotto solo successivamente e in modo vergognoso in inglese?

Una spiegazione per tutte queste incongruenze l’abbiamo chiesta. Fortuna vuole che le email siano testimoni facilmente rintracciabili. Abbiamo chiesto chi si occupasse della correzione degli articoli, secondo quale criterio venisse inserita pubblicità a persone o enti all’interno dei pezzi, in che modo potesse finanziarsi un giornale di questo tipo, che fine avesse fatto la vecchia sede, che fine avesse fatto il resto della redazione. Abbiamo chiesto tutte queste cose, ma invano. Le risposte che non volevamo, ma aspettavamo, non sono mai arrivate. La gran parte delle domande è stata più volte ignorata. Gli unici “chiarimenti” ricevuti sono stati quelli relativi alla sede – “La sede esiste ma solo per me, adesso. Presto ne avremo una nuova: non è semplice trovare il posto adatto” – e alla correzione degli articoli – “Si tratta di errori dovuti al programma di uploading. Ne parlerò quanto prima con il webmaster”. Che ve lo dico a fare: la sede è inesistente ancora oggi e gli articoli vengono tuttora caricati con molti errori. Soprattutto, non ho ancora conosciuto un solo membro della redazione. A dirla tutta, ho smesso di credere che qualcun altro, oltre a me, lavori per questo giornale. Sfortuna vuole che a breve arriveranno altri stagisti. Ad averlo saputo prima avrei tentato di contattarli e dissuaderli dal venire. Perché, sapete cosa c’è? Non è tanto dover lavorare per chi crede che munsulmani si scriva così ad essere un problema. Il problema, piuttosto, è dover lavorare con chi crede che i musulmani siano tutti dei terroristi. E ancora, il problema è dover lavorare con chi, di fronte ad una critica, risponde facendo uso di citazioni stantie (“Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. Per chi se lo stesse chiedendo: no, non è Voltaire. Evelyn Hall, sua biografa, fu lei stessa a scrivere questa frase come sunto del pensiero del filosofo. Chi l’avrebbe mai detto che così facendo sarebbe riuscita a surclassare in termini di fama il suo oggetto di studi. Lungi da me dare lezioni, sia chiaro. Vi comunico questa curiosità solo perché il mio direttore è fermamente convinto che Wauzap – Whatsapp – si scriva in questo modo, ma si infervora non poco di fronte a questo qui pro quo). Infine, ma non per importanza, il problema è dover lavorare con chi, avendo intuito che il proprio tirocinante nutre dei forti e scomodi dubbi sulla natura del giornale, infittisce i sotterfugi, s’inventa nuove scuse, continua a non dare risposte, allenta la presa sulle scadenze, lo lusinga senza posa per il suo lavoro.

Appena tornata a casa, in Italia, approfondirò con chi di dovere le mie ricerche su questo giornale, il suo direttore, la rete di cui fa parte. Nel frattempo mi auguro di poter compilare il rapporto sul tirocinio nel modo più sincero e veritiero possibile, sperando che il bisogno di una firma a fine resoconto non significhi doverne stravolgere l’intero contenuto. E se mai dovessi cedere a qualche ricatto, be’, rimane pur sempre il diario di bordo.

 

Esiste una sconfitta pari al venire corroso

Che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo

 

(Saccheggio la splendida immagine dall’archivio di Geppo Lindo Ferretti http://geppolindoferretti.tumblr.com/)

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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Diario di Bordo Fri, 03 Jul 2015 10:13:10 +0200
Ohana https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/764-ohana https://www.piaceremagazine.it/index.php/diario-di-bordo/item/764-ohana Ohana
Sono settimane ormai che provo a scrivere questo pezzo. Mi sembra di essere tornata al liceo, quando concludere il tema era ancora più difficile che iniziarlo. Per uscirne viva, di solito, mi affidavo a una citazione. Penoso, non c’è che dire. Fortuna vuole, stavolta, che non esista frase capace di descrivere questi sei mesi trascorsi a Londra.
Bando ai trucchi da studente, allora, e che il mio cuore possa sciogliersi in cristalli liquidi senza perdersi irrimediabilmente in questo triste addio.

Che si fa in questi casi? Si procede con una lista di ringraziamenti? Non ho mai fatto neanche quella della spesa, di certo non ne sarei capace. A dirla tutta, se c’è una cosa che ho capito vivendo a Londra è che per fare la spesa occorre affidarsi all’ispirazione. È così che io e i miei coinquilini ci siamo sfamati in questi sei mesi. Pizza surgelata oggi, noccioline domani, fragole e lamponi del Kent nei giorni soleggiati: creatività culinaria allo stato puro. Apro parentesi: onde sfatare il mito dello sfaccendato studente fuorisede devo ammettere che in questi mesi abbiamo cucinato, e pure tanto. Ora come ora posso addirittura vantare una lista di specialità che vanno dal riso al curry al pollo ai funghi passando per uno sformato di patate, crema di latte e pangrattato. Ai miei coinquilini riservo il merito della carbonara, del cavolo nero risaltato in padella e del panino al mazzafegato. A questo punto dovrei chiudere parentesi. Già che ci sono, però, proseguirei con quel poco di economia domestica che ho assimilato vivendo qui. Chi l’avrebbe mai detto, ad esempio, che anche per il bucato occorre essere creativi? Separare bianchi e colorati non è che una perdita di tempo. Mettere a lavare tutto a quaranta gradi senza distinzione di sorta: eccolo qua il segreto del buon bucato. Non serve neanche l’acchiappacolore, giuro. E se qualche calzino bianco dovesse per caso assumere sfumature inaspettate be’, poco male: d’altro canto, a cosa serve l’eccezione se non a confermare la regola? Infine, ma non per importanza, sono certa di poter definire l’asciugatrice una delle più grandi invenzioni del secolo scorso. Senza il suo aiuto l’uggioso tempo londinese avrebbe avuto la meglio sul mio bucato. Unico accorgimento: evitare di superare i 60 minuti canonici calcolati ad hoc per un’asciugatura ottimale, pena la trasformazione dei mutandoni della nonna in slip. Che forse è meglio, ma questa è un’altra storia.

Ebbene sì, sono diventata una persona autosufficiente. Era questo il punto cui volevo arrivare. Prima piccola grande soddisfazione da mettere in valigia.

Secondo souvenir da portare a casa, Londra. Per lei c’è posto nella mia testa, non serve altro spazio per contenerla. Londra. Di primo acchito, come ho scritto più volte, non ne sono rimasta affascinata. Caotica, tentacolare, dagli accostamenti architettonici alquanto discutibili, eccessivamente costosa, disegnata su misura per uomini d’affari e donne in carriera, legata al business e alla finanza nelle loro innumerevoli e deplorevoli sfaccettature. Questa è Londra, non c’è niente da fare. E però. Però. Londra è anche tanto altro. Londra è i suoi bellissimi parchi, le sue case vittoriane, i suoi mercati, il suo odore di cucina messicana, i suoi pub, i suoi scoiattoli, i suoi locali con musica dal vivo, la sua multietnicità, i suoi gentili abitanti. E ancora, Londra è Camden Town, Clapham, Greenwich, Holborn, Blackfriars, Baker Street. Tesco, Sainsbury’s, Iceland, Poundland, 99 p. Londra sono i venti gradi che ti costringono ad indossare il giacchetto durante tutta l’estate, la pioggia che cade senza posa, il vento che soffia incessantemente. Soprattutto, Londra è Brixton. Notoriamente – ed erroneamente, ça va sans dire – ritenuto uno dei quartieri più malfamati di questa città, non c’è luogo che io abbia amato di più. Vivere qui mi fa sentire a casa. Quartiere afrocaraibico dal passato tutto da scoprire, Brixton è il posto in cui un qualsiasi membro della rinomata comunità bianca occidentale può finalmente veder ridimensionato il proprio – soltanto presunto – primato. I suoi abitanti sono vivi, votati alla musica, alla danza, al divertimento. Qui tutto è economico, vibrante, colorato. Sentir parlare un inglese che nulla ha a che vedere con quello della famiglia reale, partecipare alle manifestazioni contro la gentrificazione, fare un giro al Brixton Village per mangiare qualche specialità caraibica, rimanere incantati di fronte alla bellezza delle chincaglierie africane che fanno capolino dalle vetrine dei negozi: sono tutte cose che mi mancheranno irrimediabilmente, queste. E se la mappa di Londra è interamente dispiegata nella mia testa, Brixton occupa invece un posto nel mio cuore.

Autosufficienza e spirito di appartenenza alla comunità locale. C’è ancora un po’ di spazio nella valigia, soprattutto se decidessi di cimentarmi in un’operazione di rimozione (fittizia, sia chiaro) del terribile direttore del giornale e dell’avida e venale padrona di casa. Per ora ho deciso di risparmiarli. Non si sa mai. E se la valigia dovesse iniziare a pesare un po’ troppo, be’…saprei esattamente come intervenire.

Terzo ed ultimo souvenir da incastrare tra un vestito e l’altro: le persone che ho incontrato qui. Mica tutte, solo le migliori. Se non fosse per Ryanair e i suoi costi proibitivi – 10£/Kg – non ci penserei due volte ad aggiungere chili su chili (umani) nel bagaglio da stiva. Inutile fare troppi nomi, sarebbe superfluo per voi che leggete e troppo triste per me che scrivo. Vorrei trovare le parole adatte per ringraziare i miei coinquilini, innanzitutto. Con loro ho trascorso le giornate più belle. Bianca e Simone, dico a voi: mentre scrivo queste ultime pagine del mio diario di bordo voi siete in camera vostra, fate capolino per chiedermi cosa fare della giornata, tornate indietro in attesa che mi liberi da questo impegno per andare a bere qualcosa tutti insieme. Non avete notato, però, che ogni tanto una lacrima si fa viva sul mio volto, scende velocemente, si perde fra le mie fossette come se non fosse mai esistita. Be’, sappiate che quella lacrima è per voi. Mi mancherete davvero molto. Come voi non c’è nessuno, che ve lo dico a fare; sono certa però che non avrete nulla in contrario ad essere infilati in valigia insieme a qualcun altro. Devo far spazio per tutti quelli che da semplici conoscenti si sono trasformati in amici: dalla mia fida comare incontrata sul posto di lavoro ai ragazzi della scuola d’inglese, dalle persone conosciute per caso in giro per la città a quelle rincontrate altrettanto casualmente in una via del centro. A tutti quelli che hanno già lasciato Londra, invece, non posso che rivolgere una minaccia: sarò di nuovo fra i vostri piedi, prima o poi, quindi vedete di accogliermi con la stessa ospitalità che vi avrebbe riservato la mia valigia.

Sei mesi, tre souvenir, smisurata malinconia. Questo è quanto.

A casa ad aspettarmi c’è una nipote appena nata. Genitori, fidanzati, amici e chi più ne ha più ne metta non reggono il confronto. Aria, questo il suo nome, è la sola ragione che mi ha permesso di capire che è davvero arrivato il momento di tornare a casa.

See you later, alligator!

 

 

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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Diario di Bordo Fri, 07 Aug 2015 16:14:25 +0200
Ludovica Marani https://www.piaceremagazine.it/index.php/porks-in-wings/item/2990-porks-in-wings https://www.piaceremagazine.it/index.php/porks-in-wings/item/2990-porks-in-wings ||

Mi chiamo Ludovica, ho passato il quarto di secolo e nel mio tempo libero adoro fare illustrazioni

Sono perugina, ma vivo a Londra ormai da un po’. Vi ricorderete forse quanto l’ho odiata questa città. Diario di bordo, la rubrica che curavo per Piacere Magazine quando mi trasferii di qua dalla Manica, ne è la riprova. Chi l’avrebbe mai immaginato che a un paio d’anni di distanza mi sarei sentita come a casa, qui. Ebbene, saranno proprio i miei disegni a parlare per me, di me, della mia vita tra Perugia e Londra. Prima fra tutte un’illustrazione natalizia. Perché, si sa, non c’è occasione migliore del Natale per respirare aria di casa, anche se a chilometri di di- stanza.

Merry Christmas!

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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Ludovica Marani Mon, 17 Dec 2018 11:52:05 +0100
Ludovica Marani https://www.piaceremagazine.it/index.php/porks-in-wings/item/3015-porks-in-wings https://www.piaceremagazine.it/index.php/porks-in-wings/item/3015-porks-in-wings ||

Mi chiamo Ludovica, ho passato il quarto di secolo e nel mio tempo libero adoro fare illustrazioni

Sono perugina, ma vivo a Londra ormai da un po'. Vi ricorderete forse quanto l'ho odiata questa città. Diario di bordo, la rubrica che curavo per Piacere Magazine quando mi trasferii di qua dalla Manica, ne è la riprova. Chi l'avrebbe mai immaginato che a un paio d'anni di distanza mi sarei sentita come a casa, qui. 

Ebbene, saranno proprio i miei disegni a parlare per me, di me, della mia vita tra Perugia e Londra. Per questo numero, un'illustrazione a tema nozze. Nove coppie, un'unica linea, nessun confine. Alla mise tradizionale ho voluto accostare abiti da cerimonia coreani, giapponesi, yoruba, norvegesi, indù, scozzesi. Persino un occhio poco attento noterà che il mio amore non ha sesso – com'è giusto che sia e come spero tutti, un giorno, capiranno. Un augurio per questo 2019 che fa pendant alla voglia di fare del mondo un posto migliore. Un posto senza violenza né disprezzo, dove l'incontro abbia sempre la meglio sullo scontro, incline alla giustizia e immune all'odio.

Ad maiora!

 

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ludo.vi@hotmail.it (Ludovica Marani) Ludovica Marani Thu, 14 Feb 2019 16:57:29 +0100