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Da Berlino alla Croazia con l'Umbria nel cuore In evidenza

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La storia di Paolo Sciavartini e del suo gin fenomenale

Testo: Angela Giorgi - Brano: “Happy Hour” - The Housemartins


Un sogno diventato realtà: è la “boutique distillery” di Paolo Sciavartini, umbro di nascita ma cittadino del mondo, che ha aperto nella parte settentrionale dell’Istria la distilleria Imagine Spirits. E il gin che produce – il Pink Robin, di qualità eccezionale e pluripremiato a livello internazionale – ha il sapore di un’avventura: un viaggio segnato da curiosità, coraggio e determinazione, che ha portato Paolo a sperimentare in tutti i settori lavorativi, fino ad approdare a questa ricetta davvero speciale. Un ingrediente insolito, un originale processo di distillazione, ma soprattutto il sapore di un successo che dall’Italia sta facendo il giro del mondo. 



Un umbro nel mondo. Raccontaci la tua esperienza, dagli inizi nella nostra regione alle tue esperienze internazionali.

Sono nato ad Assisi e ho vissuto a Perugia, dove ho frequentato i primi due anni di ingegneria, poi per specializzarmi mi sono spostato a Roma, dove ho completato gli studi e ho iniziato a lavorare. Quindi in pratica ho lasciato Perugia a 19 anni, ma torno spesso per vedere la mia famiglia e gli amici. A Roma ho conosciuto quella che ora è mia moglie: tedesca, nata in Spagna, lavorava lì come giornalista. L’ho seguita a Berlino, lasciando casa e lavoro: a 31-32 anni mi sono preso un anno sabbatico, ho imparato il tedesco e facevo la guida turistica per gli italiani. Appena ho iniziato a padroneggiare la lingua, ho trovato lavoro per un’azienda giapponese che faceva consulenza nel fotovoltaico, poi con una statunitense con cui lavoro tuttora e di cui sono anche socio. Grazie a quest’azienda ho potuto girare il mondo: ho vissuto dieci anni a Barcellona, dove avevo un piccolo ufficio e tanta libertà di movimento.


Da dove hai preso l’idea del gin artigianale?

L’idea del gin risale proprio a quel periodo. Tra il 2006 e il 2008, a Barcellona dilagava la moda del gin tonic che poi ha invaso tutto il Mediterraneo. Ma dopo dieci anni in Spagna, con due figli e in piena crisi economica, volevamo cambiare. Siamo quindi tornati a Berlino, una città giovane e culturalmente attiva, ma ci siamo poi spostati a Potsdam, più adatta per crescere i nostri bambini. Due anni fa ho deciso di aprire la distilleria: in Germania ho seguito dei corsi per capire come si produce il gin e con un collega croato ho dato il via all’attività. In Italia è molto complicato aprire una distilleria: c’è tanta burocrazia e serve un investimento enorme, perché le normative esistenti richiedono impianti molto costosi. È per questo che sono pochissime le distillerie “craft” – e una delle poche è proprio in Umbria, a Gubbio. In Istria invece c’è la stessa tradizione del Veneto per la grappa e aprire una distilleria è più semplice. Inoltre, il ginepro croato è molto buono, come quello che si trova in Toscana o in Umbria. In Croazia abbiamo trovato anche l’aronia, un frutto rosso con cui creiamo un aroma per il gin. Non è molto famoso in Italia, anche se è molto salutare e penso che la moda dell’aronia prima o poi arriverà anche in Italia. 


Com’è lavorare sul mercato estero?

Per la distilleria, come spiegavo, è decisamente più semplice che in Italia: in Italia devi fare grandi investimenti, che per una piccola attività, soprattutto all’inizio, possono essere scoraggianti. In Italia poi l’alcol è monopolio di stato e le concessioni delle licenze sono quindi molto regolarizzate, con una burocrazia complessissima. Nel mio lavoro principale, come ingegnere elettrico, posso dire che rispetto alla mia esperienza all’estero ho notato che gli italiani sono superqualificati. Se messi in un ambiente efficiente possiamo fare la differenza, perché l’impegno che mettiamo sul lavoro tende a essere sempre alto. L’unica differenza è che in Italia a volte manca organizzazione: sia perché le aziende sono tendenzialmente più piccole e hanno pochi mezzi a disposizione, sia per la mentalità generale – in Italia da un lato abbiamo aziende modello, leader mondiali, dall’altro aziende che si sono fermate agli anni ’70, a quando hanno fatto fortuna e poi si sono arenate per limite di mentalità. Un laureato italiano vale come due spagnoli o uno e mezzo tedesco. La cultura generale e quella che apprendiamo nei nostri studi è molto più alta, ma siamo carenti in alcune competenze, per esempio nelle lingue moderne.



Quali consigli ti senti di dare ai giovani italiani che vogliono lanciarsi sul mercato estero?

Innanzitutto, partire umili. Non possiamo pretendere di diventare subito business manager di un’azienda tedesca, per esempio. Secondo consiglio, non avere stereotipi. In Italia negli anni ci siamo creati stereotipi su tutti, ma soprattutto noi giovani dovremmo abbandonarli: siamo tutti europei ormai. Soprattutto a livello lavorativo, i pregiudizi non devono mai essere un ostacolo. E non dobbiamo neanche arrenderci alla paura dello stereotipo dell’italiano all’estero: gli italiani sono visti benissimo, invidiati da tutti. Ovviamente non ci invidiano il “sistema Italia”, ma la cultura e il territorio: dobbiamo andare a testa alta perché ci apprezzano molto più di quanto pensiamo. Addirittura in Germania. Tanti miei colleghi che sono andati all’estero sono riusciti a fare carriera, pochissimi sono dovuti tornare indietro. Per cultura e mentalità, riusciamo sempre a cavarcela. Devo però ammettere che la sfida più grande per l’italiano all’estero è la lingua. È il più grande ostacolo: siamo creativi come mentalità, ma spesso non possiamo farla fruttare perché ci manca un mezzo essenziale come la lingua. Io sono partito essenzialmente per amore, ma all’estero mi sono sempre trovato bene, non ho avuto difficoltà con il lavoro o nello stringere amicizie, l’unico problema è stato la lingua. Una seconda lingua oltre l’inglese potrebbe fare la differenza nel mercato del lavoro. 





Cosa ti manca dell’Italia e dell’Umbria?

Gli italiani: un popolo bellissimo. La possibilità di rivedere la mia famiglia e gli amici di una vita. 


Progetti per il futuro?

Il progetto del gin per me è “futuro”: l’azienda è stata creata a giugno 2019 e abbiamo iniziato a distillare a dicembre. Quindi sicuramente il mio progetto futuro è far crescere la distilleria, rendendola un po’ più internazionale. Non conoscevo il mercato dell’alcol: ci sono tanti produttori, servono risorse per investire in pubblicità e al momento dobbiamo rivolgerci a mercati di nicchia che richiedono meno investimenti, ma anche tanto lavoro. Partecipiamo a tanti concorsi internazionali, un biglietto da visita che aiuta a distinguersi. Quest’anno dovevamo essere a Vinitaly, ma purtroppo è saltato. Prima o poi tornerò in Italia e aprirò una distilleria: siamo in trattativa con due distributori, speriamo che vada a buon fine. È questo uno dei miei sogni nel cassetto.

 

Pubblicato in PM TopNews